Appunti per una storia del preromanticismo italiano (1941)

Appunti per una storia del preromanticismo italiano, «L’Italia che scrive», a. XXIV, n. 5, Roma, maggio 1941. Testo mai ripubblicato.

Appunti per una storia del preromanticismo italiano

Nel fluire continuo delle idee poetiche, nel variare esteriore e profondo del gusto, del costume letterario, lo storico ferma dei periodi e se inevitabilmente li schematizza (ma chi può vantarsi di adeguare completamente la libertà di questa vita spirituale? che sarebbe poi un vanto ben povero quando è chiaro che proprio è dello storico portare a coscienza, rilevare ciò che nei testi rimane caotico e contraddittorio), anche costruisce il volto di un’epoca poetica, offre la possibilità di una valutazione non arbitraria della poesia, coglie in quella poetica tutto il complesso vitale di intenzioni, di inclinazioni, di cultura, che lega l’espressione pura al mondo spirituale senza cui non sarebbe nata. Opera storica che non ha nulla di esteriormente deterministico perché parte sempre dal vero reale, dai nuclei personali che costruiscono la storia e di essa sono soggetto. Tale studio sempre legittimo pare anche piú adatto dove matura una crisi letteraria, dove un gusto si scioglie in un altro, nel passaggio tra due mentalità poetiche: che è proprio la reazione migliore ad una falsa e rigida sistemazione, a chiusure immediate e ad una indistinzione cronistica che accosta e confonde espressioni diverse, maniere, direttive che ebbero un loro coerente aggruppamento nel momento formativo. Dissolvere vecchi aggruppamenti è giusto dove presupponevano assurde volontà faziose, ma ricondurre ad una visione che sia ordinata e complessa, concreta e rappresentata, questa è opera della vera storia letteraria.

Tra i periodi della nostra letteratura ve n’è uno particolarmente indicato a uno studio di tal genere, un periodo di ricca confusione, in cui idee, tendenze, reazioni le piú diverse si complicano, si ordinano e si disordinano, tendono ad equilibrio, si slanciano: storia di ardimenti a metà, di rivoluzione facile e leggera e insieme di urti improvvisi e potenti, di accomodamenti verso la sistemazione di una nuova tradizione. Il nome che piú conviene a questo periodo che va dalla metà del ’700 agli inizi dell’800 è certamente quello di preromanticismo, non solo perché è stato in tal vasto senso adottato dai linguaggi critici di altre culture europee, ma soprattutto perché indica il periodo di passaggio verso il romanticismo, l’abbandono e l’elaborazione delle poetiche arcadiche e illuministiche verso la poetica romantica. Questa storia in Italia è ben diversa da quella di qualsiasi altra nazione perché da un illuminismo sfasato, non sviluppato fino in fondo e gradualmente, si tende ad un romanticismo neoclassico (Alfieri, Foscolo, Leopardi) e come via di uscita meno legittima, riprova di questo sviluppo mancato, verso un romanticismo programmatico che non riesce a costruire un approfondimento spirituale e letterario che lo metta vicino al grande romanticismo tedesco o a quello inglese, se non nutrendosi anch’esso proprio di quel primo movimento in cui spirito nuovo e tradizione avevano dato luogo ad una sintesi insuperata. Mancanza di un estremismo romantico come di un estremismo illuministico che influí in maniera decisiva sullo sviluppo della nostra poesia moderna.

Il nuovo periodo nasce dopo la soluzione settecentesca piú ampia che è quella pariniana, in cui l’Arcadia cedeva la sua musica distinta e breve, il suo secentismo razionalizzato ed epurato (si ricordi quale indice prezioso ciò che l’Arteaga diceva del Metastasio che prima di comporre leggeva qualche brano dell’Adone per nutrire di quella esuberanza di canto e d’immagini la sua schematica sensibilità), offriva un’esperienza di tenerezza e di chiarezza che l’illuminismo descrittivo, preciso ma non matematico portava verso una poesia circostanziata, esatta e pur sensibile. E piú che un nuovo amore per i classici (tale sarà risentito nel neoclassicismo che si rifà al Parini) era l’amore della precisione illuministica che induceva in quella poesia una ricerca di nettezza, di minuta perfezione e di una sensibilità sospirosa e soddisfatta, eco diversa di un mondo perfetto, senza scosse. Se vogliamo trovare la punta estrema della sensibilità pariniana ripensiamo alla fine del Messaggio o ai versi del Dono in cui, ciò che la nuova poesia approfondirà con piú cura, il concetto dell’orrore è invece ancora involto nel brivido edonistico del Settecento:

caro dolore, e specie

gradevol di spavento.

Qui era giunta la sensibilità dei letterati italiani nella sintesi piú perfetta del secolo. Una sintesi che offriva la perfezione di una forma atta ad esprimere concetti, immagini, cose, una sintesi illuministica che non aveva spento il residuo migliore dell’Arcadia e lo indirizzava ad un gusto di nettezza, di sobrietà che fanno pensare cosí al neoclassicismo. Nella cultura intanto si assisteva ad un trionfo dell’illuminismo come mentalità di appassionata ricerca dell’utile, del particolare nuovo, del sistema, ma raffrenato da una reazione di origine soprattutto confessionale che ne ottundeva i risultati piú spinti. E siccome l’illuminismo per dare dei veri frutti doveva essere estremistico, l’illuminismo italiano restò a metà, fra Pietro ed Alessandro Verri diremmo, tra Pietro che sognava riforme, elaborava piani economici e creava una prosa viva e raziocinante, problemistica ed Alessandro che già ai suoi inizi portava un gusto aristocratico e sensibile pronto a sostenere nella maturità la sua prosa ombrosa ed enfatica, le sue complesse delicatezze preromantiche. Illuminismo e spunti nuovi si intrecciano, il Baretti si scaglia contro l’illuminismo e in mezzo alla sua prosa reazionaria e rivoluzionaria ragiona per schemi utilitaristici e progressistici. Ciò dà luogo ad un caratteristico raccorciamento, a una mancanza di assimilazione completa e lenta del pensiero illuministico che verrà infatti mai pienamente debellato e tornerà fin nella sintesi estrema del Leopardi come pensiero valido quando in Europa trionfava l’idealismo romantico. Questo sfasamento della cultura letteraria italiana provoca cosí un ingorgo di idee, di tendenze contrastanti e indistinte che rendono piú difficile un passaggio graduale e semplice dalla poetica illuministica a quella romantica. La stessa traduzione in termini nazionalistici di europeismo-novità, italianismo-tradizione, complica di una nuova sfumatura questo periodo di incertezze e già nel «Caffè» coesistono punti di vista cosmopolitici e accenni ad un gusto non piú razionalistico, pittoresco e paesistico.

E in questa condizione di crisi intima e di incertezza fra un desiderio di novità e una fedeltà alle vecchie forme cadono le prime traduzioni dei testi preromantici europei: le Notti di Young, i Sepolcri di Hervey, l’Elegia dí Gray, l’Ossian di Macpherson, i drammi di Arnaud, gli Idilli pastorali di Gessner. In una letteratura educata da secoli a un limite lirico sensuale (soprattutto dopo il Tasso), le meditazioni sull’eterno, le voci della sensibilità che si fa sentimentalismo, la ricerca di un sublime non oratorio, di toni tetri, desolati, di una languidezza non cantata, ma tratta dai torbidi sviluppi del cuore dolente (il preromanticismo si arresta alla individuazione dei nuovi centri ispirativi, all’espressione dell’individualità in pena, mentre il romanticismo indaga, libera l’io, ne afferma lo slancio mistico e prepotente) dovevano giungere del tutto inaspettati, piú che in qualsiasi altra letteratura, piú che in quella francese che al classicismo boileauiano era venuta aggiungendo una pratica di romanzo intimo, una prosa sensibile, moderna, adatta a risentire pur nella naturale riduzione questi primi sfoghi dell’anima romantica. In Francia un Le Touneur poté dare al gusto francese una traduzione coerente di Young, Machperson, Hervey con un’unica poeticità del languore e dell’orrore che si presentava intera, concreta alle possibilità di un Rousseau e di un Saint-Pierre. Da noi l’incertezza, la goffaggine di molte traduzioni indicava una immaturità alla comprensione dei nuovi testi poetici, una scarsa capacità ad un equilibrio letterario fra la vecchia forma e le tendenze del gusto nuovo. Ad esempio il languore misticheggiante di Young si faceva inevitabilmente oratoria o languidezza arcadica. La natura compromessa di quella cultura che aveva trovato però una sintesi nella poesia pariniana, ostacolava in parte e in parte equivocava la nuova materia poetica. Pure l’attrazione della nuova poesia era forte, i tentativi si moltiplicavano, una lenta assimilazione portava nel cerchio dei temi letterari i temi del dolore e dell’orrore, la lingua si arricchiva, anche con la sua resistenza, con la sua volontà di riduzione alla precisa chiarezza tradizionale, di nuove immagini, di nuove espressioni. Lentamente un po’ reagendo, un po’ accettando, un po’ riducendo, i letterati italiani accoglievano i motivi preromantici, un’aura preromantica si diffondeva nel costume letterario, sensibilizzava ogni espressione di convenienza, di relazione. Ma l’esperienza preromantica piú completa è rappresentata non tanto dagli altri traduttori o riduttori (si rivedano le Notti Clementine del Bertola per avvertire i limiti spirituali di quei letterati a sorpassare la riduzione di un motivo dell’anima a pretesto di pagina di omaggio e di bravura), quanto dal maggiore dei traduttori, dal Cesarotti cioè con il suo Ossian.

Il Cesarotti con la sua educazione ad un illuminismo europeo non fanatico, con la capacità formale di cui era dotato, con una fortunata spregiudicatezza di gusto, era la personalità piú adatta a incontrarsi con l’opera preromantica piú ricca di immaginazione, di paesaggio, di racconti nuovi, l’opera che rappresentava già la traduzione in un racconto epico, in situazioni di poema di quei sentimenti di dolore, di incubi, di mestizia che affioravano nella sensibilità europea. Le meditazioni di Young potevano diventare una specie di predica senza paesaggio, senza evidenza, gli idilli di Gessner d’altra parte venivano troppo prontamente assimilati alla poesia pastorale della tradizione, mentre l’Ossian si affermava poema, incontro di immagini, di luoghi, di visioni, di persone poetiche nuove, ma sensuose e rappresentate, e si inseriva nel gusto omerizzante che veniva ormai prevalendo nella rinfrescata «querelle» anche nei detrattori illuministici di Omero. Come sempre avviene in questi casi, quelli che negavano Omero venivano però a concedergli proprio quelle qualità di sublimità, di primitività, che contrastavano con i loro criteri di misura, di grazia, di verosimiglianza, e il trovare di colpo un poeta diverso da Omero, apparentemente barbarico e pure squisitamente settecentesco, assicurava la fortuna della nuova opera. Come chi, criticando il barocco, ne avverta però certa alta declamazione immaginosa, di canto rotondo o abbondante, e poi si trovi di fronte a un falso gongoristico tutto intensamente fatto di quegli estremi piú significativi, il Cesarotti trovò in Ossian l’Omero del suo gusto: ciò che avrebbe, da buon illuminista, negato ad Omero, non poteva piú negarlo ad Ossian.

Cosí con questa traduzione, che ha un’importanza letteraria estrema e mai pienamente ponderata, nasce un esempio di nuova sintesi dopo quella pariniana, la sintesi della nuova aura poetica in una espressione che tien conto della sintesi precedente eliminando cosí l’arbitrio della novità, in un metro che sembra accogliere quell’enfasi trattenuta, e tetra, quella pensosa sonorità, quel sublime di un nuovo tipo umano. La mediazione cesarottiana tra il nuovo gusto e la tradizione settecentesca può dirsi ottima e ciò che a noi può dispiacere è però letterariamente sempre importantissimo. La notte orrida, il senso triste e grave della solitudine nei boschi, il peso del paesaggio malinconico, la tenerezza sensibilizzata della luce lunare come voce serena e dolente, l’eroicità infelice e senza compenso, vengono a sostituire il paesaggio tradizionale, sconvolgono la subordinazione descrittiva al racconto lirico. Il giro della fantasia non si chiude piú intorno a un centro ben chiaro e principale, ma intorno a un sentimento, a un moto dell’anima sensibile. All’oratoria solita si sostituisce un’oratoria dolente che canta la situazione dell’anima, piú che i fatti.

Una pagina del Cesarotti ci dichiara esaurientemente questo «bello preromantico»: «La mescolanza del bello morale col sensibile rende questo piú interessante. Un boschetto di alberi ben disposti è bello per sé, ma se questo è di funebri cipressi ci attacca di piú per la dolce melanconia che sveglia in noi l’idea della caducità umana. La sensazione diviene piú viva e profonda, se in mezzo a un circondario di cipressi v’è una tomba, o una memoria d’un uomo celebrato o caro. Un romitaggio situato in un bosco insinua nelle nostre idee il senso augusto della Religione... Un mare in tempesta presenta l’aspetto d’un nulla terribile, ma esso divien patetico se veggiamo da lungi un legno in pericolo di naufragare. Tutti i monumenti che rappresentano vicende strepitose, tutti quelli che svegliano alcun sentimento profondo relativo alla Divinità, all’Eternità, alle forze del tempo, alle vicissitudini della fortuna, tutti hanno una bellezza assai maggiore di quelli che ci dilettano per la squisitezza dell’arte. Una campagna solitaria con una capanna e una greggia condotta da un pastorello inteso a suonar la zampogna divien deliziosa perché sveglia l’idea della pace e dell’innocenza».

È in certo senso una brusca irruzione di volontà extraestetica, di affermazione di sentimenti, di problemi di una sensibile spiritualità: si pensi al tema dei cimiteri, a quella dolcezza della malinconia, a quella riflessività pronta a intenerirsi, a rifugiarsi in una equivalenza molle e autunnale. La forza sanguigna o convenzionale degli uomini diventa una pensosità che li accompagna anche sul campo di battaglia, che ferma il loro gesto in una indecisione che il neoclassicismo arricchirà di purezza lineare e di perfezione. Non piú il bello basta, si cerca il sublime come misto di perfezione formale e di un calore sensibile che dia un significato intimo ad ogni spietata fermezza. Ed è perciò che anche il neoclassicismo si fonde, si muove intimo al preromanticismo, dà luogo ad un’aura unica che tutti cerchiamo pensando ai Sepolcri foscoliani o alle canzoni funerarie del Leopardi. L’impeto delle grandi personalità romantiche viene a trovare una cultura già formata, si placa almeno inizialmente nel tenero impasto preromantico.

La cultura preromantica era dunque, dopo Cesarotti e i tentativi minori, pronta all’arrivo di una vera personalità nuova che portasse un senso concreto e potente del nuovo, una ribellione all’illuminismo in quanto aveva di freddamente razionalistico: fu l’Alfieri che nell’esperienza dell’Ossian cesarottiano (i piani sterminati e desolati, le selve oscure del Nord) portò la sua affermazione di individuo tormentato, di passione senza limiti, che non fossero quelli di una precisione, di una realizzazione pura, oltre, ma non fuori della tradizione. Accanto all’Alfieri si svolge intanto un altro tentativo minore di equilibrio letterario nel Pindemonte fra un preromanticismo epurato da ogni eccesso, inscritto nell’estrema finezza arcadica, e un nuovo amore classicista di esile perfezione. E accanto e insieme si svolge il motivo neoclassico che pare una reazione al preromanticismo e ne è invece una faccia, lo sviluppo dall’interno di una posizione di pratica e di idealità che si rifà in parte al Parini, in parte alle idealità europee che cercavano un mondo nuovo di perfezione assoluta, un sublime che viveva nella loro ansia di assoluto. Pure il trionfo neoclassico che trovava in Italia l’esempio pariniano, la sintesi equilibrata che dal Cesarotti portava al Pindemonte, significava un esilio momentaneo dell’impeto piú indisciplinato del preromanticismo, lasciava in abbandono quei testi italiani preromantici come le poesie del Viale o di Diodata Saluzzo che avevano tentato una espressione piú immediata (ma anch’essa frenata, dai limiti di tutto il movimento italiano) del tormento che assaliva lo spirito a questo primo contatto con la coscienza di un’individualità abissale, carica di trasalimenti, di terrori. Restava una mano stesa che sarà ripresa in parte dal romanticismo ufficiale il cui primo linguaggio difatti non è molto diverso da quello di questi preromantici di sinistra e che, col solito ritardo della letteratura italiana in quel periodo, si nutrí di una cultura ancora non pienamente romantica. La corrente neoclassica invece assorbiva quanto era possibile del preromanticismo italianizzato, e se pure a volte si sente un aperto squilibrio fra le opere piú direttamente preromantiche e quelle piú ispirate dall’ideale dell’eleganza formale negli stessi autori (e ciò specialmente nel letterato piú compromesso, nel Monti), è proprio nei capolavori del Foscolo che questa fusione è avvenuta, che si è formata una sintesi elevatissima, tradizione romantica italiana che si spezza solo dopo il Leopardi, dopo il risultato piú intenso e piú puro in cui tutte le esperienze precedenti hanno trovato l’approfondimento piú intero.

È dunque nel preromanticismo che si attua la possibilità del piú grande equilibrio romantico italiano, come è anche nel preromanticismo che d’altra parte comincia la storia complessa e sottile di rivolgimenti e assestamenti, di riduzioni, di reazioni tra motivi nuovi e tradizione, verso equilibri e squilibri successivi, storia che continua attraverso il romanticismo ufficiale, matura la sua crisi piú grave nel decadentismo verso l’attuazione di una coerente poetica moderna.